La voce dell’acqua

Ovunque lascia traccia di sé. Persino quando scompare. Suscita parole che descrivono, mentre invita a scavare nell’intimo. Comunque è specchio. Sfiora. Sommerge. Solleva. Siamo noi.

Non accade mai. Non accade mai che mi spaventi o susciti timore, nemmeno quando alza la voce e mostra la sua incontenibile potenza. Si appoggia sulla pelle. Impasta la farina con il lievito. Aggiunge un pizzico di sale. Si fa pane. Lascia che le cose accadano. Mette insieme ciò che apparentemente è opposto.

Mi piace ascoltarla, mentre cammino sulla strada: non tralascia nulla. Persino le tasche si riempiono del suo silenzioso dire. Accarezza ogni cosa: non fa distinzione.

Mi piace immaginarla, mentre me ne sto in silenzio accanto al fuoco, dopo aver seminato di passi il mio incontro con la montagna, madre delle acque che scendono.

Ha voce: non rumore. Non parla: eppure, dice. È primordiale: ma dice l’ultima parola.

Può accadere di tutto, intorno e dentro, mentre la guardi. La sua voce è penetrante. E anche dopo che se ne è andata, lascia intorno un profumo che ciascuno ricorda e conserva nell’intimo. Insegna a stare. Eppure suggerisce passi. Anzi, bracciate che evocano abbracci, figli del desiderio d’essere, mentre si affidano e chiedono di appartenere.

Invita a indossare abiti che prendono forma con ciò che toccano, con segreta trepidazione e vivace creatività. Non lascia mai le cose come le trova. Sfiora, per far fiorire. Sommerge, per sollevare al cielo. Avvolge, per lasciare posto all’essenziale.

Potrei restare giorni a osservarla, mentre a occhi chiusi immagino i suoi sentieri, protetto nel calore di un sottotetto ad alta quota, ascolto il ticchettio del suo dire fatto di sillabe e silenzi che si fanno eloquente nostalgia di vita e di intimità.

Ovunque lascia traccia di sé. Anche d’estate, mentre tutti la cercano. E persino quando scompare, suscita parole che la descrivono, mentre mette dentro la voglia di scavare: perché alla fine, sotto sotto, in fondo, nel profondo, si cerca e si raggiunge sempre una fonte; perché anche il deserto più ostile si appoggia su un mare che culla e sostiene.

Comunque è specchio. Mostra altro, il dintorno, mentre avvolge di sé ciò che raggiunge. Persino la luna e il fratello sole trovano pace sulla sua pelle diffusa: a qualsiasi ora del giorno e della notte. E resta. Lascia parole di sé che raccontano storie che rimangono vere, perché tornano a bagnare di presente storie, volti e sussurri che si temevano perduti.

In giorni assolati che asciugano il superfluo e fermano la fretta, aggiunge crepe di luce bagnata che impregnano di desiderio cuori mai sazi di pace e imbeve di sosta passi abitualmente inquieti.

Tutto scorre. Anche i giorni di sole. Insieme a quelli della notte. «Ogni creatura è un’isola davanti al mare, un’isola in mezzo al mare - canta Francesco De Gregori insieme a Enzo Avitabile in Attraverso l’acqua - sono un palo di legno piantato nel mare [...] sono qui per la sete e la fame [...] sulla spiaggia mi poso come un pezzo di pane, una goccia di resina o un grano sale». «Sta nella nuvola e nel pozzo - scrive Erri De Luca -, nella neve e nella noce di cocco, negli occhi e nel fiume, nell’arcobaleno e nel lago [...] fa il pane, fa la pasta. È nella carta e nel vino, nelle ciliegie e nelle comete».

Questa è la voce dell’acqua. E noi: siamo quell’acqua. Siamo acqua che cammina.

 

Germano Bertin