Sant’Antonio è stato un grande annunciatore della Parola e della giustizia del Signore nella Chiesa e nella società del suo tempo. Ma quali potrebbero essere oggi le sue parole?
C’è un curioso destino che mi porta, percorrendo i fatti di questo 2019, a ripensare ai momenti salienti della mia vita, “vecchia” di otto secoli eppure così viva. Ben tre ricorrenze mi stimolano a ripensare a quel momento, per me, così fatidico quando per due volte il mio destino subì una svolta decisiva e provvidenziale. Il 30 e 31 marzo il papa che ha assunto il nome del Poverello d’Assisi andrà in Marocco, la terra in cui giunsero missionari e finirono martiri i cinque fraticelli che mi fornirono l’occasione ultima di una conversione della mente e del cuore. Fu contemplando i corpi straziati del suddiacono Berardo da Calvi dell’Umbria, di padre Pietro da San Gemini, dei frati Ottone da Stroncone, Accursio e Audito, uccisi il 16 gennaio 1220 a Marrakesh dal califfo Abu Ya’qub perché predicavano la fede cristiana in Marocco, che decisi di cambiare l’abito di monaco agostiniano con il ruvido saio di bigello dei francescani. Convinto, certamente, dall’ideale di povertà comunitario e individuale da loro professato, ma soprattutto infiammato dal desiderio di seguirne l’esempio missionario fino al martirio.
E qui viene la seconda ricorrenza che s’intreccia con queste mie parole: il 24 marzo la Chiesa celebra la 27a giornata di preghiera e di digiuno in memoria dei missionari martiri. Il tema a cui è dedicata quest’anno è: “Per amore del mio popolo non tacerò” (cfr. Is 62,1), ispirato alla testimonianza di Oscar Romero, el santo de America, il cui esempio esprime la piena consapevolezza che amare Dio significa amare i propri fratelli, difenderne i diritti, assumerne le paure e le difficoltà.
Come raccontano le mie biografie, io giunsi in Marocco sulle orme dei cinque confratelli per “chiedere all’Altissimo se volesse far partecipe anche me della corona dei suoi santi martiri”. L’Altissimo, come è scritto nell’Assidua, era d’altro intendimento: mi “afflisse per tutto l’inverno con una grave infermità” e pochi mesi dopo dovetti rinunciare ai miei progetti “eroici”.
Curiosamente, questa mia rinuncia appare almeno per qualche aspetto simile a un altro fatto di cui commemorerete, in settembre, l’VIII centenario: l’incontro di san Francesco con il sultano d’Egitto Malik Al-Kâmil, avvenuto un anno prima, nel 1219. Le versioni di questo “fallimento” (anche lui non raggiunse né il martirio né la conversione del musulmano) sono cambiate nel corso dei secoli, adattate alle diverse sensibilità dei narratori. Mi sento però di poter dire che, al di là delle parole usate per ricordare, l’anelito missionario fosse ispirato a un desiderio di testimonianza forte, ma pacifico. L’insegnamento di Francesco, come il mio, la mia predicazione e i miei gesti che a lui si ispirarono furono sempre dettati da un urgente desiderio di conciliazione, basata sulla conversione dei cuori.
E all’insegna della pace e della conciliazione si svolge anche il viaggio di papa Francesco, che ha scelto come motto della visita “Servitore di speranza” in quanto il santo padre è servo dei servi di Dio. Un motto che è anche il titolo della lettera pastorale della Conferenza episcopale regionale del Nordafrica, data a papa Francesco durante l’ultima visita ad limina del 2015. Le Chiese dell’Africa del Nord, vi si dice, sono chiamate a vivere la vocazione all’incontro e al dialogo con i musulmani, “una vocazione alla fratellanza con tutti”. Un’evangelizzazione che non è proselitismo, ma un cammino d’incarnazione vissuto fino all’estremo, un consenso esigente, essendo chiamati a vivere nella privazione e a volte nelle avversità.
di Lorenzo Brunazzo