Anno 134 - Giugno 2022Scopri di più
Allènati a coltivare la gioia
Monica Cornali
Intorno al secondo-terzo mese di vita del bambino fa la sua comparsa un importante indicatore positivo dello sviluppo psico-affettivo, che viene definito “sorriso sociale”: è un collante importantissimo nella costruzione del legame affettivo tra il bambino e chi si prende cura di lui e prepara l’emergere della gioia. Se la gioia, nelle sue forme caratteristiche, si manifesta nell’infante in seguito alla gratificazione dei bisogni essenziali, con la crescita e lo sviluppo psicologico appare sempre più come emozione che segue alla soddisfazione di un desiderio e alla realizzazione di uno scopo.
Da vari studi effettuati nell’ambito dell’età evolutiva emerge che la felicità è provata dai bambini prevalentemente nel contesto delle relazioni familiari e amicali; dai preadolescenti nel contesto dei gruppi con i pari e può essere associata al successo scolastico; dagli adolescenti invece è un’esperienza collegata alle relazioni amicali, alla riuscita sportiva e scolastica, al raggiungimento di obiettivi perseguiti, alle relazioni sentimentali, al divertimento e alla spensieratezza e, infine, alle relazioni familiari.
Nei giovani adulti si fa strada la capacità di gioire legata a un orizzonte di valori non solo di lavoro e vita sociale, ma anche culturale, estetico e spirituale. La spinta alla crescita interiore è tale che non sorprende ritrovare riferimenti alla gioia in filosofie e religioni diversissime: è fondamento della cristianità (tanto da far dire a papa Francesco che «il cristiano è uomo e donna di gioia») e del buddismo, ma si ritrova anche negli scritti dei filosofi greci, da Aristotele a Epicuro. Secondo gli studiosi la felicità è una sorta di “ombrello” sotto cui ci sono altri sentimenti positivi, che dipendono molto dal contesto culturale.
L’idea di felicità di una società individualistica come quella occidentale, per esempio, coincide con il raggiungimento dei propri scopi e di successi personali; nelle società collettivistiche come quella giapponese, invece, la felicità è più condivisa, legata all’equilibrio delle relazioni, dei legami personali e sociali. Al netto delle differenze culturali, la “tendenza alla gioia” si può esercitare: alcune caratteristiche del temperamento, come l’essere estroversi e avere fiducia in se stessi, aiutano a provare più spesso emozioni positive.
Ma chiunque può diventare più “gioioso” e se non si può intervenire direttamente sulle emozioni, che sono risposte immediate agli eventi, si può diventare più consapevoli di ciò che di bello incontriamo ogni giorno. Gli “esercizi” per farlo sono tanti: dallo scrivere lettere a chi ci ha fatto del bene alle “tre benedizioni”, con cui alla sera ci si concentra su tre eventi o cose buone del giorno appena trascorso per aumentare il senso di gratitudine. Ognuno può farlo a suo modo, tenendo conto di carattere, attitudini ed esperienze.
Per alcuni le tecniche di rilassamento possono essere una porta verso la gioia; per altri può essere più utile condividere la propria esperienza per poterla vedere attraverso occhi diversi e rivalutarne gli aspetti migliori; per altri ancora può servire il “diario delle emozioni” che aiuta a leggersi dentro e a trovare le parole per tradurre gli stati d’animo. Infine ricordiamo, soprattutto nel tempo di crescente complessità che stiamo vivendo, che la gioia spirituale può convivere anche con la sofferenza e la difficoltà: infatti non è una fuga dalla realtà, ma un orientamento della realtà stessa, che viene illuminata e attirata da quella luce derivante dalla fiducia che tutto è dentro l’abbraccio di Dio, ma proprio tutto. E che Lui porterà a compimento la nostra vita.