Anno 134 - Luglio-Agosto 2022Scopri di più
L’altro capo della corda
Elide Siviero
Mi torna in mente ogni tanto il titolo di un libro memorabile del maestro elementare Marcello D’Orta, che raccoglieva sessanta temi di bambini napoletani, Io speriamo che me la cavo, pubblicato nel 1990. Fu un caso letterario e il titolo evocava la fine del mondo a cui il bambino sperava di sopravvivere. In questo periodo in cui pandemia e guerra hanno davvero messo alla prova la nostra vita potremmo essere tentati di cadere nella disperazione o scivolare nel fatalismo evocato dal titolo del libro suddetto.
È giusto quindi fermarci sulla virtù della speranza. L’ex presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, aveva scritto questa frase: «La speranza non ha niente a che vedere con l’ottimismo... non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà». Questa frase ci conduce su sentieri diversi rispetto al fatalismo.
La speranza biblica non ha nulla a che fare con la speranza del mondo, che i greci chiamavano “ultima dea”, l’ultima chance che hai, quando non puoi fare altro che sperare. Per i cristiani non è così: non è l’attendere incerto di qualcosa che può venire, ma può anche non venire. Ti puoi appoggiare totalmente in questa speranza che è un dono che la teologia chiama virtù teologale, cioè parte da Dio e porta a Dio e che nella sua radice più profonda significa forza, quella forza che abbiamo ottenuto mediante il sacramento del battesimo.
Quando san Paolo parla della speranza, nella Lettera ai Romani, la nomina dopo aver parlato di tribolazione, ponendo questo percorso: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,3-4). Ci fa vedere come si passa dalla tribolazione alla speranza.
Essa è il punto di arrivo di un percorso fatto dalla tribolazione alla fede, alla pazienza, alla fedeltà, fino al vertice: la speranza che non delude, e non delude perché ci conferma che l’amore di Dio è stato riversato su di noi, un verbo che dà l’idea proprio del traboccare. Riversare richiama il sangue “versato per voi” nella Eucaristia. La speranza è entrare nella gioia di Qualcuno che mi ama.
Parlare di speranza non vuol dire riferirsi a una tensione inquieta verso qualcosa di incerto, ma la ferma attesa di qualcosa di sicuro: quando parliamo di speranza dal punto di vista biblico si fa riferimento a ciò che riguarda il futuro. La fede ci dice che la salvezza è presente, la speranza ci fa capire che se noi crediamo, la avremo. La fede ci dice che siamo già dentro il Regno dei cieli, che lo abbiamo ricevuto, ma non lo possediamo ancora totalmente; la speranza ci dice che lo possederemo.
La fede ci dà il fondamento, la speranza ci fa vedere la realizzazione futura. Mi piace ricordare che il termine speranza in ebraico si dice con la parola Tikvà che vuol dire “corda tesa”: tu vedi solo un capo della corda, non l’altro. Sperare è credere che l’altro capo lo tiene saldo Dio nelle sue mani. Sperare non è riuscire a trovare sempre il bello delle situazioni: alcune sono talmente drammatiche che nessuna bellezza ci pare possibile.
Don Luigi Maria Epicoco dice: «Non dobbiamo cadere nell’equivoco che le persone dotate della speranza cristiana abbiano sempre chiaro il senso di quello che vivono e riescano a individuare il bene negli eventi che accadono attorno a loro. Piuttosto, chi ha questa speranza possiede l’intima convinzione che un bene esiste comunque, anche se in quel momento non si è in grado di vederlo». È la certezza che nulla sfugge dalla mano di Dio, anche se io non vedo il capo di quella corda che penzola dal cielo.