Anno 132 - Ottobre 2020Scopri di più
Benedetti difetti
Gabriele Pedrina
Padre Franco avrebbe potuto sbuffare, considerate le volte che doveva ripetermelo; ma non l’ha mai fatto. «Non puoi dare quello che non hai – diceva – non possono pretenderlo gli altri e tu non hai motivo di fartene una colpa». Alla mia obiezione, che questo mi sembrava un buon modo per giustificare la propria pigrizia, rispondeva: «Certo, tu proverai a imparare una cosa che non sai fare o a procurarti quello che ti manca. Tu ti impegnerai, ma non è detto che tu ci riesca: lo devono capire loro e lo devi accettare tu». Perché non sbuffava? Per quello stesso motivo. In quel momento non ce la facevo ad accettare l’idea di essere incapace di corrispondere alle aspettative delle persone, timoroso com’ero di deluderle e di essere abbandonato. Non avevo con me questo modo saggio di vedere le cose e così tornavo a raccontargli dei miei fallimenti. Non ero capace e lui, calmo, tornava a spiegarmi.
Poi, un po’ alla volta, ho fatta mia la lezione: son tornato con i piedi per terra concentrandomi su quello che avevo e quello che sapevo fare, lasciando da parte l’ansia di mostrarmi come gli altri mi volevano (o almeno così credevo). Ho ripreso sicurezza constatando quante cose so fare, anche se non alla perfezione, e quante situazioni posso affrontare con queste capacità. Beh ragazzi, volete che ve lo dica? È tutto un altro vivere, molto più rilassato. Faccio quello che so di saper fare, senza badare a dove arrivano gli altri, e me lo gusto come se fosse uno di quei paninazzi presi al baracchino degli Onti. Solo piacere, senza l’amarezza di rimpianti o invidie. Che non vuol dire che ho perso il gusto della sfida o di superarmi: poi, se ce la faccio son contento e sposto la tacca dei miei limiti; ma se non ce la faccio... Amen, Alleluia! Il panino è ancora tutto lì.
Questo modo di accettare sé stessi, lavorando per migliorare, ma felici di quello che si è, mi ha anche aiutato a godere di più delle amicizie. Ci sono a volte dei comportamenti di alcune persone che sono lontani mille miglia da me; idee, modi di fare, atteggiamenti che mi danno sui nervi. Sono singoli aspetti – che non hanno a che fare con la cattiveria – in mezzo a molti altri che mi piacciono, momenti che si infilano dentro una storia fatta di giornate bellissime. Eppure hanno la capacità di infastidirmi, come sassolini nelle scarpe che disturbano un’amicizia. Le cose cambiano se riesco a dirmi: «Gabriele, anche lui ti dà solo quello che ha; non aspettarti ciò di cui non è capace e goditi tutto il bello che ti sa regalare». Noi siamo fatti per vedere le cose che non vanno (dicono che fa parte dell’istinto di sopravvivenza che ci induce a scorgere tutti i possibili pericoli). Ma una volta che so che quel modo di fare o di pensare non è pericoloso, posso concentrami su altro.
Ovvio, posso anche provocarlo a cambiare e anche mandarlo beatamente a quel paese se un giorno non lo reggo, ma quello che resterà gustosamente dentro di me è che, nonostante questo, è una bella persona e un buon amico e mi va di starci insieme e non vale la pena star lì a rimestare su qualcosa che in questo momento non c’è, che forse un giorno arriverà o forse non arriverà mai. A volte mi chiedo come Gesù potesse sopportare quei suoi dodici apostoli: Pietro tanto esuberante quanto insicuro, Giovanni geloso e appiccicoso, Giuda attaccato ai soldi, Filippo con le sue domande e il suo sarcasmo.
E non parliamo dei loro sbalzi di umore: un momento galvanizzati, il giorno dopo intimoriti, adesso hanno capito tutto, un minuto dopo non hanno capito niente. Eppure se li è scelti e se li è tenuti stretti, li ha amati e protetti, li guardava e sorrideva per quei difetti che li rendevano bellissimi. Per quei difetti per cui avrebbe dato la vita.