Anno 134 - Dicembre 2022Scopri di più
Che cosa sappiamo dell’amore?
Monica Cornali
Siamo giunti al termine del nostro itinerario: una sorta di ri-alfabetizzazione emotiva in cui abbiamo accostato emozioni e sentimenti alla guisa dei colori principali dell’arcobaleno, pur consapevoli dell’esistenza di molteplici sfumature. Ho allora pensato come saluto e augurio per tutti: perché non accennare all’amore? L’amore, il bistrattato amore, di cui conosciamo tante parodie, tante idealizzazioni e che però nessuno può definire, costringendolo in una definizione univoca. Semplicemente perché, come ha scritto una dolce poetessa nel 1765 – Emily Dickinson – «che l’amore è tutto, è tutto quel che sappiamo dell’amore».
Tutti lo desideriamo, lo rincorriamo. Dio è amore, come ci ricorda san Giovanni. Veniamo da Lui, siamo impastati di Lui, torniamo a Lui. E anche quando non riusciamo a riconoscere esplicitamente Dio (mi riferisco per esempio ai fratelli non credenti) chissà come mai non dubitiamo mai dell’esistenza dell’amore! L’amore non è solo un sentimento e non è solo un’emozione, pur se li comprende come linguaggi espressivi. All’amore ci si può avvicinare, a mio avviso, solo per allusioni. È la speranza che la vita del mondo abbia un senso e che questo senso sia il bene, se non altro perché noi siamo affamati di questo bene e costantemente ci disponiamo a ricercarlo, anzitutto scavando dentro noi stessi. L’amore è la sostanziale accettazione, la benevolenza totale, ci fa sentire benedetti: dice che è bene che io ci sia, che tu ci sia.
L’amore afferma che esiste un livello dell’essere che trascende l’ambiguità di questo mondo e che chiamiamo “Dio”, intuendo una Realtà primaria dove l’essere e il bene finalmente coincidono. Non a caso, in tema d’amore, mi sovviene il linguaggio allusivo e simbolico della poesia, che ci porta all’intuizione di una tensione mistica alla comunione, che tutti ci abita nel profondo. Purtroppo c’è chi non fa esperienza d’amore venendo al mondo e costoro si portano appresso quella “ferita dei non amati” cui si riferisce il teologo e psicanalista Peter Schellenbaum (1939-2018) che è “il ritenersi non degni di amore”, l’impronta di un bisogno d’amore rimasto inappagato. Si tratta di sentimenti che spesso hanno origini lontane, in un’esperienza amorosa non felice, magari vissuta nell’infanzia, che si è radicata profondamente, influenzando tutte le successive relazioni affettive.
Da bambini siamo deboli e vulnerabili e abbiamo un grande bisogno di cure, di attenzione, di amore che però solo raramente viene soddisfatto, non necessariamente per cattiva volontà, ma spesso perché i genitori non hanno abbastanza tempo e soprattutto perché a loro volta non hanno ricevuto da bambini abbastanza attenzione dai loro genitori e non hanno quindi imparato ad amare. Nella relazione di coppia spesso si portano inconsapevolmente questi “sospesi” e si nutrono segrete aspettative di poter guarire una volta per tutte le carenze affettive, le delusioni subìte durante l’infanzia; il partner diviene una sorta di sostituto genitoriale al quale chiediamo di amarci in modo totale, di essere il genitore perfetto mai avuto e sempre desiderato.
A questo punto ci aiuta nella riflessione Henri J. M. Nouwen (psicoterapeuta e sacerdote olandese, uno dei massimi scrittori di spiritualità del mondo contemporaneo, scomparso nel 1996 a 64 anni), secondo cui tutta la nostra vita è contrassegnata da una lotta contro quelle voci interiori che ci dicono – ora sommessamente, ora gridando – che non siamo abbastanza bravi, intelligenti o attraenti, che non siamo abbastanza spirituali e degni di amore. Per Nouwen, tuttavia, la trappola del rifiuto di sé e della convinzione di non poter essere amati per noi stessi, ma solo per qualcosa che facciamo per gli altri, o che gli altri si aspettano di ricevere da noi, non è di natura tale che gli esseri umani la possano vincere con le loro forze, poiché essi sono fondamentalmente incapaci dell’amore gratuito.
Soltanto Dio è capace di amarci per noi stessi, per quello che siamo realmente, dietro le molte maschere che indossiamo per nascondere le nostre debolezze, le paure, le incoerenze. Se avessimo una salda fede nell’amore incondizionato di Dio per noi, non sarebbe più necessario essere sempre alla ricerca del modo di essere più ammirati dalla gente e, ancora meno, avremmo bisogno di ottenere dalla gente la forza che Dio desidera darci in abbondanza. Smetteremmo, in altre parole, di chiedere all’amore umano la perfezione dell’amore; accetteremmo d’essere amati da chi ci sta accanto come si può, ovvero imperfettamente, condizionatamente.
Riusciremmo, aggiungo io, a perdonare i nostri genitori per non averci amato come avremmo voluto e, anziché ripiegarci sulla nostra ferita, scopriremmo che la nostra vera dignità è regale e consiste nell’essere amati da Dio.