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Claver, apostolo tra gli schiavi

suor Marzia Ceschia

pietro claver

Il gesuita Pietro Claver (1581-1654) è certo molto lontano dalla nostra epoca, eppure attuale per il suo stile di abitare la storia del suo tempo. Si fece carico, infatti, della piaga della schiavitù alla quale non accettò di assistere impotente. Oggi questo stesso dramma ha, forse, altri nomi, ma non possiamo affermare che non ci sia: per quanto si sia ampiamente diffusa la conoscenza e la cultura dei diritti della persona, la tratta degli esseri umani ha la stessa fisionomia di spietatezza.

Forse, per alcuni aspetti, una maggiore gravità a motivo di una dimensione di invisibilità convenientemente sfruttata per giustificare o restare indifferenti. L’8 febbraio 2024, nel suo messaggio per la X giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, papa Francesco affermava infatti: «La tratta è spesso invisibile. I media, grazie anche a reporter coraggiosi, gettano luce sulle schiavitù del nostro tempo, ma la cultura dell’indifferenza ci anestetizza. […] Se chiuderemo occhi e orecchie, se resteremo inerti, saremo complici».

Pietro Claver, in un contesto storico-sociale che avallava pubblicamente l’inferiorità di alcuni nei confronti di altri, sceglie di prendere posizione, di lasciarsi guidare dalla mentalità del Vangelo. Nato a Verdù, in Catalogna, dopo gli studi filosofici è ordinato a Cartagena in Nuova Granada, come veniva allora chiamata la Colombia. Qui sbarcavano a migliaia gli schiavi deportati dall’Africa, che – quando non erano già morti e dati in pasto agli squali durante la traversata – morivano prematuramente a causa delle dure condizioni di vita e dei maltrattamenti.

Pietro è profondamente scosso da questa situazione e in essa si sente chiamato a darsi radicalmente, facendo voto di essere lui stesso schiavo di quelli che erano asserviti: “Petrus Claver, Aethiopum semper servus” (col nome di “etiopi” si intendevano tutti gli africani). Per loro si spende con totale dedizione. Ogni volta che lo raggiunge la notizia di uno sbarco di nuovi schiavi si affretta a uscire in battello per raggiungerli, prendersene cura, annunciando loro il Cristo (si dice che ne abbia battezzati circa trecentomila), trattandoli con dignità. Impara la lingua dell’Angola per comunicare con loro, per gli altri organizza un gruppo di diciotto interpreti.

La sua opera di carità è invisa ai potenti, specie ai mercanti di schiavi: Claver è accusato di imprudenza, di aver profanato i sacramenti amministrandoli a esseri indegni. Tuttavia egli non si scoraggia, continua il suo servizio per quarant’anni, dedicandosi anche alla visita dei carcerati e al sollievo dei malati più gravi – bianchi o neri che siano – negli ospedali. Non esita a chiedere l’elemosina per procurarsi di che nutrire i suoi poveri. Ammalatosi di peste nel 1650, muore l’8 settembre 1654. È canonizzato da Leone XIII nel 1888 e nel 1896 è proclamato patrono di tutte le missioni cattoliche tra i neri; la sua memoria liturgica ricorre il 9 settembre.

Facendo proprio riferimento a questo santo, nel suo viaggio apostolico in Colombia, il 10 settembre 2017 papa Francesco ha affermato: «Accanto a san Pietro Claver c’erano migliaia di cristiani, molti di loro consacrati, ma solo un pugno di persone iniziò una corrente contro-culturale di incontro. San Pietro Claver seppe restaurare la dignità e la speranza di centinaia di migliaia di neri e di schiavi che arrivavano in condizioni assolutamente disumane, pieni di terrore, con tutte le loro speranze perdute. Non possedeva titoli accademici rinomati; si arrivò persino ad affermare che era “mediocre” di ingegno, ma ebbe il “genio” di vivere pienamente il Vangelo, di incontrarsi con quelli che altri consideravano solo uno scarto». Una provocazione anche per noi.