Anno 132 - Aprile 2020Scopri di più
Didattica... a distanza?
Alberto Amadio
Mentre sto scrivendo (inizio di marzo) in Italia e nel mondo sta dilagando l’infezione causata dal Coronavirus. La popolazione è nel panico: migliaia di contagiati, centinaia di decessi, ospedali sovraffollati. Le lezioni nelle scuole sono sospese da dieci giorni e l’interruzione si prolungherà. I vari istituti stanno sperimentando nuovi sistemi di comunicazione online con gli studenti, le case editrici propongono piattaforme di “didattica a distanza”. Di fronte a questa locuzione mi coglie un senso di malessere, come se all’improvviso la nostra esistenza fosse stata sconvolta. Non si può amare una persona o coltivare un terreno “a distanza”. La scuola è amore, è cultura, dal latino colere, che significa appunto “coltivare”, ossia “coltivazione”, nutrimento della mente di bambini e ragazzi nei quali si cerca di far germogliare e maturare sani pensieri e criteri di giudizio. Non può un professore incontrare a distanza i suoi alunni.
Ha bisogno di vederli, di passare fra i banchi: gode nel posare con delicatezza la mano sulla spalla di chi è girato a chiacchierare e nel farlo “ruotare di 360 gradi” verso di sé; si diverte, mentre sta spiegando il Risorgimento, ad avvicinarsi furtivo a un ragazzino vivace e ad afferrare l’aeroplanino di carta con cui quello stava giocando; è felice quando, dopo aver presentato Il Sabato del villaggio di Leopardi, esclama con benevola ironia: «Non vedo nessuno incantato o commosso da questo capolavoro!» – e in risposta, per scherzo, sente un coro di «Uauuu!» di meraviglia, o vede qualcuno portarsi le mani al viso e fingere di singhiozzare dalla commozione; annuncia l’intenzione di offrire una cioccolata presso la macchinetta distributrice della scuola – senza rispettare le distanze! – al “colpevole” che avrà il coraggio di confessare di aver rubato la merenda al compagno, o di avergli fatto uno scherzo di cattivo gusto; il risultato è che tutti all’unisono gridano: «Sono stato io!».
In situazioni come queste, studenti e insegnanti scoppiano a ridere insieme, si crea armonia, che gli psicologi chiamano empatia e, chissà, forse qualcosa de Il Sabato del villaggio, che non hanno capito e a cui non danno importanza, la ricorderanno; o magari acquisiranno piano piano l’abitudine di ammettere sinceramente le proprie responsabilità senza temere punizioni. Non ci può essere empatia a distanza. Certamente i Governi di tutti i Paesi afflitti da questa calamità hanno adottato le misure più idonee, ma la questione di fondo è un’altra: stiamo curando i sintomi, non le cause.
Riferendomi alle considerazioni espresse dallo scrittore Paolo Giordano durante una trasmissione televisiva, credo che, oltre a preoccuparci di usare mascherine e gel antisettici, di stare distanziati gli uni dagli altri, di chiudere gli edifici scolastici, dovremmo anche riflettere: è probabile che all’insorgere repentino di questo virus micidiale abbiamo contribuito anche noi, attraverso gli effetti devastanti della deforestazione, della produzione incessante di anidride carbonica, che causa il riscaldamento globale, con conseguenti picchi di calore e violenti nubifragi, tipici delle zone tropicali, anche in Italia ed Europa.
Si potrebbe trattare di una sorta di difesa della natura contro i nostri continui attacchi. In questo tempo un po’ tutti abbiamo riscoperto due grandi autori: Giovanni Boccaccio, che visse in prima persona la peste del 1348, e Alessandro Manzoni, che racconta e commenta, in pagine quanto mai attuali, l’epidemia diffusasi in Lombardia nel 1629. Entrambi ci mostrano questa sciagura come un’occasione di redenzione: i novellatori del Decameron, nell’infuriare della pestilenza, si ritirano a meditare, nelle loro storie, sulle contraddizioni dell’animo umano tra difetti e virtù cortesi dell’età cavalleresca; nel Lazzaretto de I Promessi Sposi i frati Cappuccini, in particolare padre Cristoforo, sacrificano la propria incolumità per assistere gli ammalati; Renzo, alla vista di don Rodrigo morente, prega per lui e il suo persecutore trova finalmente pace dagli affanni d’una vita turbolenta.
Auguriamoci che questo flagello che ci ha colpiti ci induca a rinnovare il nostro modo di vivere... non solo a distanza!