Anno 131 - Febbraio 2019Scopri di più
Difficile non è credere, ma essere credibili
Don Livio Tonello, direttore
In questi mesi mi sono imbattuto in testi significativi, frasi ad effetto, commenti spirituali. Ci sono persone versate nello scrivere e nel parlare, capaci di intercettare emotività e domande inespresse. In poche battute sanno trovare parole efficaci per descrivere, stimolare, alimentare, toccando le corde della sensibilità.
Ma questo è sufficiente? La liturgia, per esempio, ci consegna parole e gesti carichi di significato che, tuttavia, se relegati al rito, sono fine a se stessi. Il valore delle parole, dei segni, delle emozioni dovrebbe essere performante. Cioè capace di suscitare cambiamenti, azioni, stili di vita. Non è difficile credere (specialmente quando si è in chiesa). Difficile è essere credibili quando si passa per la strada. La soavità e la forza del messaggio cristiano può affascinare, ma richiede una traduzione vitale.
La pedagogia ci insegna che l’efficacia educativa si raggiunge quando all’insegnamento si abbinano i fatti. Meglio: quando i comportamenti, le scelte, lo stile di vita di chi accompagna nella crescita sono la traduzione visibile dei valori che abitano il cuore. A che servono consigli, richiami, regole se non seguiti da una vita coerente? La credibilità del cristiano è la prima forma di evangelizzazione.
La veridicità di queste parole la ritrovo nella testimonianza dei 19 martiri dell’Algeria, beatificati a Orano l’8 dicembre scorso, sacerdoti, monaci e suore uccisi tra il 1994 e il 1996, vittime della guerra civile che attraversò il Paese nord-africano. Tra di loro i 7 trappisti di Tibhirine resi famosi dal film “Uomini di Dio”. Pur consapevoli del pericolo che minacciava la loro vita, avevano deciso di restare fino alla fine accanto al popolo algerino. Gli stessi musulmani presero le loro difese di fronte alla repressione armata, rimettendoci in qualche caso la vita. Scriveva il priore Christian nel suo diario poche settimane prima del rapimento: «Vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia ricordassero che la mia vita è stata data a Dio e in questo paese».
È una testimonianza che fa bene anche per la quotidiana e normale difesa dei valori evangelici a cui siamo tenuti, in primis quello della vita, come ci è ricordato nella prima domenica di questo mese con la “giornata per la vita”, voluta dai vescovi italiani oltre 40 anni fa. Lo slogan recita così “È vita, è futuro”.
Perché «accogliere, servire, promuovere la vita umana e custodire la sua dimora che è la terra significa scegliere di rinnovarsi e rinnovare, di lavorare per il bene comune guardando in avanti». La vita fragile si genera in un abbraccio e solo in una solidale «alleanza tra le generazioni» si consolida la certezza per il domani e si spalanca l’orizzonte del dono di sé che riempie di senso l’esistenza.
In una cultura nella quale l’apparire è ricercato e conteso, un po’ di credibilità non guasta. È facile attirare l’attenzione sui social, lasciarsi suggestionare dagli slogan e dalla eloquenza altisonante. Ci vuole attenzione prima di concedere credito e cittadinanza ai proclami. Parlare può anche essere facile, difficile è dare corpo alle parole. È il primo compito anche per i cristiani chiamati a parlare con la vita e in difesa della vita. Il Vangelo cammina con le nostre gambe e si diffonde con la nostra coerenza.