Anno 131 - Settembre 2019Scopri di più
Già e non ancora: esserci
Germano Bertin
Ci sono persone che vedono: vedono già, quanto ancora non è che un’idea; vedono compiuto, quanto ancora non ha forma, consistenza, colore, identità. Il pittore vede la propria tela compiuta quando ancora non ha tracciato il primo segno. Lo scultore ha già riprodotto in sé la sua opera, mentre è ancora prigioniera della materia che la custodisce. Un architetto ha già realizzato in sé l’abitazione che ancora è solo un insieme di desideri e aspettative.
E il poeta porta sulla punta del proprio cuore e sui confini delle proprie labbra, parole che riescono a far sognare e, al tempo stesso, a raccontare emozioni che comunque conservano il sapore dell’indicibile. Già e non ancora. Cosí, accade e si compie il mistero di una esistenza che si svolge nello spazio, allo stesso modo in cui parole antiche si svelano piano piano, una appresso all’altra, mentre il rotolo del tempo libera giorni che custodiscono comunque il fascino dell’inedito: e dentro lí, prende forma l’identità e l’irripetibile originalità di un volto che rimarrà unico e inimitabile insieme al nome che lo rappresenta.
Nulla è già dato. Eppure tutto viene, viene incontro a chi cerca con sguardo che penetra e supera la fragilità del tempo e chiede di entrare nella profondità di qualcosa che superi la prova del frattempo, del provvisorio, dell’istante che pure contribuisce a pronunciare il nome che ancora nessuno ha pronunciato nel modo giusto. Non si è piú gli stessi: quando si riemerge da una immersione che appena sotto il pelo dell’acqua ha permesso di stupirsi dinnanzi alla scoperta di un mondo sommerso che pure esiste ancor quando nessuno lo sappia gustare e raccontare.
Non si è piú gli stessi: quando si scende da terre alte, raggiunte allo stremo delle forze, dove è diventato possibile conoscere il confine che unisce lo spazio – la propria fragilità – al tempo, la profondità che svela destinazioni incredibili, eppure raggiungibili. Non si è piú gli stessi: quando accadono incontri che, lasciandoti sul palato la sensazione d’essere stati anticipati, attesi, desiderati, permettono di conoscere e avvicinare, senza timore, parti inedite di sé, fino a trovare, in sé, la temerarietà di avvicinarvisi, imparare a darvi un nome, fino ad abitarle e lasciarsene trasformare.
E «una cima raggiunta – scrive Erri De Luca in “E disse” – è il bordo di confine tra il finito e l’immenso... non è traguardo una cima, è sbarramento,... un affacciarsi al vuoto all’insú». E cosí Mosè, primo alpinista, mentre veniva accompagnato a mettere insieme l’umano al divino, fino a lasciarsene segnare dentro con inchiostro indelebile, apprendeva ad afferrare «una frase dove gli altri intendono solo un chiasso» e a guardare un fiume annusandone e inseguendone la sorgente e non, come fan tutti, lasciandosi catturare solo dal suo scorrere verso il basso: il futuro di un fiume è alla sua sorgente e l’identità del vento non è data da ciò che colpisce, ma dalla fonte che lo genera, sulle terre alte, abitate da silenzio e stupore.
Dentro, ma oltre. Qui, ma non ancora sazi. Raggiunti, ma pronti a inseguire il non detto. Incontrati, ma attratti dal non ancora raggiunto, in sé, nell’altro. E vedere già, prima che tutto sia dato. Lungimiranza, semplicemente: esserci e trovarsi già piú avanti. Non soli: ma preceduti, anzi attesi. E provarne gioia.