Anno 132 - Settembre 2020Scopri di più
Gli operai della vigna
Don Carlo Broccardo
La parabola che ci accompagna in questo mese di settembre ci racconta una scena abituale nei paesi del vicino oriente antico: le persone che non hanno un lavoro fisso o dei campi di proprietà si posizionano fin dal mattino presto nelle piazze o negli incroci delle strade in attesa che qualcuno offra loro un lavoro a giornata. Forse siamo nel periodo della vendemmia e un padrone di casa va a cercare operai per la sua vigna. Alcuni vengono “assunti” all’alba, altri alle nove del mattino, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque del pomeriggio.
Così è chiaro che hanno lavorato per un numero diverso di ore: chi un’ora soltanto, chi tre, chi sei, nove e anche di più. C’è una differenza, dunque, ma non dipende dagli operai né dal padrone. «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?», chiede il padrone agli ultimi; «Perché nessuno ci ha presi a giornata», rispondono loro. Non sono né pigri né furbi; se qualcuno li avesse presi, avrebbero iniziato anche loro a lavorare prima. Ultimo dettaglio, prima di giungere alla conclusione della parabola: il padrone non è così preciso quando si accorda con i suoi operai.
O meglio: lo è con i primi, con i quali concorda la paga di un denaro, ma agli altri dice solo: «quello che è giusto ve lo darò». Proprio queste parole introducono l’argomento di discussione: i primi operai, quelli dell’alba, non sono d’accordo con il padrone; secondo loro non è giusto che gli ultimi prendano la stessa cifra. Provo a mettermi nei loro panni. Immagino di svegliarmi prima che sorga il sole per andare in piazza con la speranza che qualcuno mi prenda a lavorare – perché altrimenti oggi non si mangia. Sto tutto il giorno a lavorare, è caldo, è faticoso.
E poi vedo che, quando il padrone paga quelli che hanno lavorato un’ora soltanto, dà loro un denaro; non sarebbe ovvio aspettarsi che noi, quelli della prima ora, abbiamo diritto a qualcosa di più? La risposta del padrone non mi piace: è vero che mi ha dato quello che avevamo concordato; è vero che dei suoi soldi può fare quello che vuole; ma non è giusto, tutto qui. Non è giusto, perché io ho lavorato di più. Le parabole sono belle perché “ti incastrano” nei tuoi ragionamenti. Questo racconto ti porta a dire, con i primi operai: non è giusto!
E così ti costringe a confrontarti con un altro modo di ragionare. Prima di questo racconto, infatti, c’è il brano famoso del giovane ricco che se ne va triste perché è attaccato ai suoi molti beni. Allora Pietro commenta: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito!»; bravi, dice Gesù: avrete cento volte tanto. Ma sappiate che «molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi primi» (Mt 19,27.30).
Sono le stesse parole con cui si conclude la parabola: «Gli ultimi saranno primi e i primi ultimi» (Mt 20,16). Gesù inventa questa storia per dire che il regno dei cieli (cioè la comunione con Dio, che già sperimentiamo ora e che sarà piena solo nel Paradiso) non è qualcosa che ci si guadagna lavorando (cioè comportandoci bene, secondo i comandamenti). È un dono. «Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?», dice il padrone. Il regno dei cieli è un dono della bontà di Dio. Molti altri testi di Matteo sottolineano l’importanza di darsi da fare, questo invece mette in luce la sovrabbondanza del dono.
La lettera agli Efesini direbbe che «abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7): la misura del dono non è la quantità del nostro lavoro, ma la grandezza della grazia di Dio.