Anno 131 - Marzo 2019Scopri di più
Il brutto anatroccolo
Roberto Filippetti
Una fiaba che ci aiuta a scoprire la nostra vera identità Il brutto anatroccolo è una fiaba tanto innestata nel particolare autobiografico (AN[D]ER-SEN significa “figlio di anatra”) quanto ricca di valore universale: l’uomo comprende se stesso in un incontro; l’io scopre la propria identità di fronte al tu. Andersen era di umili origini e si vergognava di alcuni suoi familiari, ma coltivò il proprio talento e conobbe il successo, anche grazie a incontri provvidenziali. La fiaba è scandita in quattro sequenze, corrispondenti alle stagioni. ESTATE - Mentre attorno la campagna bagnata dal sole estivo splendeva rigogliosa, una giovane anatra stava covando la propria nidiata in un luogo selvaggio, «sotto le grandi piante di farfaraccio». Quando le uova si schiusero, gli anatroccoli cominciarono a sguazzare e «si guardavano intorno sotto le foglie verdi, e la mamma lasciava che guardassero quanto volevano perché il verde fa bene agli occhi». Fra i neonati anatroccoli ce n’è uno «brutto e grigio», scambiato dapprima per un pulcino di tacchina, poi riconosciuto come figlio (i tacchini non sanno nuotare) e condotto nel pollaio-stanza delle torture. Andersen ci consegna qui un grande affresco della condizione umana come esilio, estraneità, drammatica percezione della propria finitezza: tutto il pollaio…
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