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In cerca dello Shibbòleth

Elide Siviero

Se dovessimo cercare quale sia la parola d’ordine che permette di riconoscersi tra cristiani ne troveremmo molte: da amore a perdono, da povertà a umiltà. Ma solo una è davvero esclusiva!

Iniziamo l’anno cercando una parola d’ordine per noi cristiani. Sono rimasta davvero colpita da un brano molto duro e cruento del libro dei Giudici (Gdc 12,5-6) nel quale si parla di uno stratagemma utilizzato per riconoscere quelli della propria tribù. Dopo una battaglia sul Giordano fra Galaaditi ed Efraimiti, vinta dai primi, non era semplice distinguere chi dei sopravvissuti fosse della propria tribù; così i Galaaditi domandavano a quelli che si avvicinavano al Giordano per guadarlo dopo il combattimento, di pronunciare una parola: shibbòleth che significa “spiga” in ebraico. Gli Efraimiti, nella loro lingua, non conoscevano il suono “sh” (come l’inizio della parola “sciarpa”) e quindi con la loro pessima pronuncia manifestavano subito di non essere Galaaditi e venivano uccisi.

Così la parola shibbòleth è finita a indicare un’espressione che, per le sue difficoltà di suono, è molto difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua o un altro dialetto e diventa una sorta di contrassegno per distinguersi dagli altri. È diverso da uno scioglilingua, la cui pronuncia è difficile per chiunque.

La pratica dello shibbòleth è stata usata nei conflitti per smascherare i nemici o quelli che si vogliono combattere. Ad esempio, durante i Vespri siciliani del 1282 i siciliani mostravano ai sospetti un pugno di ceci e se costoro pronunciavano “ciciri” con accento francese, venivano uccisi. E così nella Repubblica Dominicana nel 1937: il dittatore Trujillo fece uccidere decine di migliaia di haitiani che non sapevano pronunciare perejil, prezzemolo: l’accento del creolo haitiano, derivato dal francese, li tradiva. E così via in molte guerre.

Esistono però anche aspetti più pacifici dello shibbòleth: ad esempio in alcuni gerghi linguistici esclusivi che rafforzano la complicità di un gruppo, una specie di codice segreto conosciuto soltanto dagli adepti; oppure pensiamo ai termini tecnici che fanno riconoscere fra di loro gli esperti di una certa arte o conoscenza o professione che si capiscono tra loro; e perfino alla sua declinazione informatica, come genere di password che consente di autenticarsi su sistemi differenti, permettendo di effettuare il login su reti di organizzazioni o istituzioni diverse.

Insomma, potremmo dire che lo shibbòleth è una sorta di parola d’ordine che permette di riconoscersi.

Se dovessimo cercare quale sia la nostra, certo verrebbero fuori molte proposte: da amore a perdono, da povertà a umiltà, ma noi dovremmo individuare quel termine che davvero sia esclusivo dei cristiani, un termine che agli altri sia sconosciuto. Io credo che questa parola sia “Risurrezione”. Un vocabolo che provocò la derisione degli Ateniesi verso Paolo (cfr At 17) dopo il suo discorso all’Areòpago, tanto era fuori luogo quel concetto per loro. Anche oggi è proprio questo il punto su cui ci possiamo riconoscere come cristiani: proclamare la risurrezione del Signore Gesù Cristo. Molti fanno ancora fatica ad accogliere questo annuncio: accettano tutto il resto, confinando il Salvatore dentro il recinto del bravo educatore, del grande maestro, del buon uomo che amava tutti o del rivoluzionario. Ma la Risurrezione, che ne afferma la divinità, rischia di essere messa ai margini. E il luogo in cui il credente proclama questa fede è la celebrazione eucaristica: è lì che cantiamo il Mistero pasquale di morte e risurrezione: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta». Il nostro vero e pacifico shibbòleth che ci distingue dal mondo è un’azione: la Messa domenicale.

Mi vengono in mente i 49 martiri di Abitene, nel IV secolo d.C., che dicevano di non poter vivere senza celebrare il giorno del Signore: «Sine Dominico non possumus» e per questo vennero uccisi. Il loro shibbòleth li rese facilmente identificabili all’imperatore Diocleziano. Il termine “Dominicum” racchiude in sé un triplice significato. Esso indica il giorno del Signore, ma rimanda anche al suo contenuto, la Risurrezione e quindi la presenza del Risorto nell’Eucaristia.

È la Domenica il nostro unico shibbòleth che proclama la nostra fede nel Risorto.