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In quei mille giorni l’argilla ha preso forma

Gabriele Pedrina

Avete mai fatto caso che non abbiamo ricordi dei primi anni di vita? Beh, magari quelli dei pianti e dei mal di pancia li salterei volentieri, ma se penso a tutte le cose che ho imparato a fare, alle risate o alla meraviglia che avrò provato di fronte alle tante scoperte, direi che mi piacerebbe molto. Magari anche per difendermi da certi racconti di nonni e zie di cui sono il protagonista, ma sui quali non posso dire nulla. Sono i primi 1000 giorni di vita, i più importanti – dicono – e non ce ne ricordiamo neppure uno. Invece no: quei ricordi ci sono e tornano a galla costantemente, senza che neanche ce ne rendiamo conto.

Oh sì, ragazzi! Noi riteniamo che i ricordi che contano siano quelli che si possono raccontare: gli episodi, le avventure, le prime volte, i volti e i nomi di chi abbiamo incontrato. È vero che sono importanti, perché quei fatti hanno contribuito a farci diventare quelli che siamo; gli anni in quella scuola, con quegli insegnanti, le estati passate con gli zii o i pomeriggi dopo scuola a casa dalla nonna, la prima cotta, le avventure condivise con gli amici fidati o anche i pensieri che abbiamo fatto... son tutte cose che ci hanno plasmato, non c’è dubbio. L’illusione è di conoscere il 100% di tutto ciò che ci ha plasmato.

E in quei primi tre anni, di cui non ricordiamo niente? Quando eravamo molli come l’argilla fresca appena tirata fuori dal pacchetto non è successo niente o anche se è successo non conta perché non ne abbiamo memoria? In quei tre anni l’argilla si è seccata che non ne avete un’idea! Ci sono cose che si registrano in una memoria a cui non è facile accedere. Quella volta che a due anni uno ha preso paura perché al mare è andato con la testa sotto l’acqua, lui non se lo ricorda, eppure la paura di andare dove non si tocca gli è rimasta. Come forse lei non ricorderà che sua mamma aveva sempre addosso quel profumo, ma adesso quando sente quell’odore qualcosa le si muove dentro.

Ma c’è anche dell’altro che si registra in quella memoria; a esempio cosa succede attorno a me quando qualcosa non va: si reagisce con la calma o con l’agitazione? Fermi e sereni o confusi e arrabbiati? Non dico che se da piccoli siete caduti in piscina o a casa vostra alzavano la voce, adesso per forza voi avete paura dell’acqua e siete aggressivi. Ci mancherebbe! Ognuna di queste situazioni si intreccia con mille altre e quello che va a infilarsi nella memoria non è prevedibile. Però ci va.

Vi sto raccontando queste cose perché tante volte vi vedo vivere situazioni – diciamo – spiacevoli, senza capirne il perché: il non avere amici, l’andare male a scuola, l’essere irascibili, sentirsi attratti da chi ti farà del male son cose che sembrano sfuggire al vostro controllo, che detestate e vi deprimete o che accettate, con tutti i problemi annessi, difendendovi dietro a un “son fatto così”. Quando ve lo sento dire, dentro a quel “son fatto così” ci vedo anche tutte le cose belle che non hanno un perché, come certi sorrisi o risate contagiose, il camminare pacifici sulle creste delle montagne o il saper essere amici veri nelle situazioni più dure.

Nessuno ve l’ha insegnato, ma fa parte di voi. Molto – non certo tutto – arriva da quel bimbetto di tre anni che ognuno di noi è stato e a cui dovremmo iniziare a voler bene e non a rifiutare perché rappresenta l’esatto contrario della donna o dell’uomo che sentiamo di essere. Dovremmo volergli bene e provare a conoscerlo, a farci raccontare i suoi segreti, a ringraziarlo per le cose belle che ci ha trasmesso, a tranquillizzarlo per le paure che ha ancora o a chiedergli di lasciar perdere chi gli ha fatto del male. Basterebbe stare davanti allo specchio, spingersi con lo sguardo oltre il rimmel appena messo o a un odioso brufolo, arrivare davanti a lui e dirgli: “Ciao!”.