Anno 135 - Maggio 2023Scopri di più
Le tre barriere
Elide Siviero
C’è un proverbio arabo che recita: «Ogni parola prima di essere pronunciata deve rispondere a tre quesiti: È vera? È necessaria? È buona?». Romano Battaglia (1933-2012) rifacendosi a questo proverbio asseriva che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sull’arco della prima dovrebbe esserci scritto: «È vera?». Sulla seconda campeggiare la domanda: «È necessaria?» e sulla terza essere scolpita l’ultima richiesta: «È gentile?».
Vediamo che questi tre varchi ci costringono a una grande vigilanza perché una parola è giusta solo se sa superare le tre barriere, per raggiungere il destinatario con il suo significato piccolo o grande. Questa frase mi ha davvero colpito: in questo mondo in cui le parole inutili si sperperano sarebbe davvero importante riattivare la consapevolezza sullo stato di quello che diciamo.
Prima di tutto dobbiamo verificare se quanto vogliamo dire sia vero. In un periodo in cui le notizie false, le bufale, hanno intossicato la comunicazione, creando danni enormi alla società, imparare a verificare fonti e veridicità di una notizia prima di diffonderla è assolutamente indispensabile. In secondo luogo dobbiamo chiederci se quello che vogliamo dire sia davvero necessario per non scivolare nel cicaleccio pettegolo che amplifica un fatto e si compiace nel dire e sottintendere.
Una cosa potrebbe essere vera, ma non sempre è necessario dirla, soprattutto se può infangare qualcuno, metterlo alla berlina, screditarlo davanti agli altri. Ma è soprattutto l’ultimo varco che mi colpisce: questa parola è buona, è gentile? Mi ritornano in mente gli ammonimenti di Paolo agli Efesini, ai quali raccomandava: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano» (Ef 4,29).
È la caratteristica della gentilezza, una piccola virtù, umile e nascosta, che non sembra meritare una medaglia al valore, ma che rende più vivibile il mondo. Senza fare di noi dei supereroi la gentilezza ci eleva, ci rende più nobili, senza eccessiva fatica. Paolo esorta a mettere in atto, nel vivere con gli altri, comportamenti cortesi, civili, rispettosi del prossimo, fondamentalmente benevoli e premurosi. Non sono regole religiose, comandate da Dio: non è la Legge di Mosè.
Si tratta invece di precetti laici, di buon senso, che alleggeriscono la fatica della convivenza sociale e diminuiscono le occasioni di conflitto, di astio. La gentilezza, però, potrebbe essere una forma implicita di annuncio del Vangelo, che spesso ha bisogno, nelle situazioni quotidiane, di una buona parola per giungere a trasmettere all’altro la Grazia che abbiamo ricevuto in Cristo Gesù. Potremmo pensare che Paolo stia semplicemente esortando a esercitare l’autocontrollo, che comunque non sarebbe poca cosa, vista la facilità con cui sappiamo spruzzare veleno attorno a noi, ma egli aggiunge: «E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione.
Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità» (Ef 4,30-31). Si tratta di non rattristare lo Spirito: noi siamo stati unti da quel vento d’amore che circola dentro la Trinità, lo Spirito Santo, e se non sappiamo trasmettere questo amore, è perché non riusciamo a percepirlo. L’invito allora è ancora più alto: è quello di lasciarci modellare dal linguaggio della gentilezza perché siano le parole buone che diciamo a portarci dentro la consapevolezza della nostra vocazione per cui sappiamo dire parole vere, necessarie e al tempo stesso amorevoli e accoglienti, che portino il colore della gioia e della pace della Trinità.