Anno 135 - Ottobre 2023Scopri di più
L’immane disastro della diga del Vajont
Sante Beltramelli
Ore 22,39 di mercoledì 9 ottobre 1963: l’immane disastro della diga del Vajont. Sessant’anni fa… Per rispetto alle vittime, agli abitanti e al territorio, nonché ai numerosissimi emigranti bellunesi e friulani nel mondo, anche noi diamo un piccolo contributo alla “memoria” dello sconvolgente avvenimento che sessant’anni fa distrusse Longarone (in Veneto) causando 1.910 vittime e danneggiò e isolò Erto e Casso (adesso uniti in unico Comune, in Friuli, ora provincia di Pordenone; allora provincia di Udine), anche lì facendo scomparire alcune frazioni con i loro abitanti. Il nostro approccio non è tecnico, politico o ambientale, ma vuole essere esperienziale, avendo potuto recentemente visitare la famosa diga, accessibile esclusivamente e in forma sicura e protetta, accedendo dal lato friulano; di fatto camminando – prima che in cima al manufatto – sopra l’immane frana di 300 milioni di metri cubi di montagna che precipitandosi nel lago artificiale generò l’onda mortale che seppellì interi paesi e frazioni, permanentemente modificando un intero territorio a cavallo di due Regioni.
Memoria che passa attraverso il vissuto della gente
Non c’erano i mezzi di comunicazione rapida che abbiamo oggi, per cui – giovedì mattina 10 ottobre 1963 – le prime notizie arrivarono con il giornale radio delle 6,30. Mi ero alzato presto perché erano gli ultimi giorni di lavoro allo zuccherificio di Pontelongo (Padova), dove iniziavo alle 7,30 dopo quattordici chilometri di bicicletta. Il successivo lunedì sarei per la prima volta entrato all’Istituto Tecnico Agrario di Padova, dopo un’estate particolarmente impegnativa e importante. Dal giornale radio delle 7,30 e per tutto il giorno gli aggiornamenti si succedettero senza sosta in un crescendo di tragicità. I giornali della sera riuscirono a documentare il disastro lo stesso giovedì, mentre la gran parte della stampa ne diede notizia a partire dal venerdì 11 ottobre. Le dimensioni della tragedia assunsero da subito numeri da incubo e l’incredulità un po’ alla volta divenne consapevolezza da parte non solo degli italiani, ma di tutto il mondo. Tanti, e poi tanti, i volontari che da ogni parte desideravano recarsi in aiuto, nonostante le oggettive difficoltà e i pericoli anche di epidemie e infezioni. Molti emigrati ritornarono per incontrare i loro morti.
Cosa rimane dopo sessant’anni?
Longarone è stata completamente ricostruita, con la nuova chiesa - ben visibile dalla Statale 51 di Alemagna - progettata da Giovanni Michelucci. Erto nuova con il Centro Visite del Parco Naturale Regionale delle Dolomiti Friulane è uno tra i più importanti e completi siti di documentazione sul disastro del Vajont. A Casso il “nuovo spazio di Casso” è un centro sperimentale per la cultura contemporanea della montagna e del paesaggio. Per dire delle realtà più significative, poiché parecchie altre ve ne sono distribuite nel territorio. Ma nessuno meglio delle guide volontarie dei gruppi in visita che partono dall’area della Chiesetta della Memoria sul lato friulano può assicurare la “contemporaneità” e “contestualità” di una narrazione viva, che coinvolge la gente e non manca di suscitare interesse anche ai bambini, a loro modo partecipi di una vicenda che si spera non debbano mai sentire al presente, ma solo al passato: “fu”. Sì, perché – come ci diceva la solerte guida del nostro gruppo – probabilmente entro qualche decennio la stessa diga di calcestruzzo armato, ora di proprietà dell’ENEL, verrà smantellata poiché presenta segni di deterioramento, e quindi mancherà anche “l’oggetto” della memoria, che si dovrà sempre più coltivare nell’intelligenza, nell’animo e nel cuore delle generazioni che verranno. Perché anche la morte di tanti bambini – nell’immane tragedia - parecchi nel ventre delle loro mamme, non sia avvenuta invano.