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Monica Cornali

Ai pochi che muoiono quando la misura della loro vita è colma si contrappone una grande schiera di persone la cui vita viene letta come fallimentare, incompiuta. Da qui al sentimento della tragicità o addirittura dell’insensatezza non c’è che un passo; e tuttavia non disponiamo d’altro che di riflessioni umane e soggettive che prendono a presupposto la norma di una vita realizzata, vissuta in maniera ottimale, di lunghezza media. Quale sia stato oggettivamente il destino di una vita e quale ne fosse il senso, l’uomo non lo può accertare. Il filosofo e psicanalista svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) scrisse che «la risposta alla vita umana non si trova entro i confini di questa vita».

Mi sovviene un brano del bellissimo testo dostoevskijano “L’idiota” in cui il protagonista così riflette riguardo al senso di una vita umana: «Gettando il vostro seme, gettando la vostra buona azione, in qualsiasi forma essa sia, donate parte della vostra individualità e accogliete in voi una parte dell’individualità altrui; partecipate con reciprocità alla vita dell’altro. D’altro canto, tutte le vostre idee, tutti i semi che avete gettato, quelli che forse voi stesso avete dimenticato, germoglieranno e cresceranno: chi avrà ricevuto qualcosa da voi, lo trasmetterà a qualcun altro. Pertanto, come fate a sapere quale ruolo avrete avuto nel compimento delle sorti umane?».

I vissuti principali espressi dalle persone che sanno di essere in procinto di lasciare questa terra riguardano il rimorso, il rimpianto, il risentimento. Nell’ambito delle cure palliative si usa il termine “sospesi”, per indicare tutto ciò che di irrisolto impedisce alle persone di congedarsi dal mondo in maniera sufficientemente serena. La parola rimorso, letteralmente “mordere di nuovo”, indica quel tormento interiore provocato dalla nostra coscienza che “rode” lo spirito. Il morso evoca un dolore atroce, qualcosa che dilania il nostro corpo e la nostra anima quando emerge la consapevolezza degli errori che abbiamo commesso o dei danni inflitti. Il rimpianto, invece, si riferisce al ricordo doloroso delle occasioni perdute, alla sofferenza che provoca il pensiero di ciò che non abbiamo fatto o di ciò che abbiamo perso.

Il risentimento ha a che fare con rabbia o rancore verso persone o situazioni che ci hanno procurato sofferenza o che abbiamo giudicato ingiuste nei nostri confronti. Cosa ci insegnano questi vissuti? Che dovremmo imparare fin da subito, in un mondo poco disposto a tollerare la fallibilità, a comprendere che non tutto può essere previsto o controllato e ad accettare la nostra umana imperfezione. Dal punto di vista psicologico si tratta del passaggio dal senso di colpa, paralisi del cuore, al senso di responsabilità: certo che non siamo stati perfetti, ma abbiamo fatto quello che potevamo fare con la consapevolezza e le risorse a disposizione in ogni momento della nostra vita. Sapere che abbiamo fatto quello che potevamo, tenendo conto degli innumerevoli limiti dati dalla realtà; che abbiamo scelto ciò che – in quel momento – pensavamo fosse meglio; che siamo essere umani e dunque sbagliamo, ci aiuta a ridimensionare rimpianti e rimorsi, per evitare che si trasformino in un fardello che ostacola, anziché motivare, il cambiamento; ci sprona inoltre a chiarire il più possibile le relazioni conflittuali, valorizzando ciò che ci unisce agli altri, piuttosto che ciò che ci divide.

I vissuti dei morenti ci insegnano l’accoglienza del limite e della fragilità umana e insieme la chiamata a far fiorire ciò che abbiamo dentro e attorno, a non lasciarci schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, ad amare come i poeti, a conoscere, a scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori. Cory Taylor, scrittrice che nel 2005 affronta in un libro la sua esperienza di malata terminale, rivisitando la sua vita conclude così: «Quando stai morendo, può capitarti di provare una sorta di tenerezza perfino per i tuoi ricordi più infelici, come se la gioia non fosse confinata solo ai momenti più belli, ma fosse intrecciata ai tuoi giorni come un filo d’oro».

Tre sono principalmente i “rimedi” ai vissuti che abbiamo descritto: il perdono, la gratitudine, la compassione, atteggiamenti che andrebbero coltivati durante tutto l’arco dell’esistenza, fino a farne una postura di vita, un esercizio di ospitalità dei valori eterni dentro di noi. La condivisione, il dialogo con altre persone che abbiano vissuto esperienze analoghe, ma anche la scrittura, il rito, l’arte e tutte le vie che ognuno trova per dare parola soprattutto alle emozioni più faticose facilitano la chiusura dei “sospesi”, agevolando anche il processo di elaborazione del lutto per chi rimane e l’accesso a una memoria più serena e pacificata di chi non c’è più.