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(R)allentare una virtù riposante

suor Anna Maria Borghi

Frequentemente oggi parliamo di stress e aneliamo all’estate per il “meritato riposo”… che a volte però rischia di essere più stressogeno del bisogno di ristoro che lo ha generato. Certamente non era questione a tema nel Medioevo, eppure forse anche sant’Antonio può suggerirci qualche atteggiamento propizio alla nostra occorrenza.

In realtà in un passaggio dei Sermoni il Santo sembrerebbe non prospettarci una tregua a breve: «Il mondo è così chiamato perché è sempre in movimento (dal latino mundus, motus). Ai suoi elementi non è concesso riposo. Così anche l’uomo, che è un piccolo mondo, dall’inizio alla fine della sua vita è sempre in movimento, e mai riposa finché non arriva al suo “luogo”, cioè a Dio. Non ci sarà mai pace se non in Lui, e quindi a Lui si deve tornare». L’espressione, di chiaro sapore agostiniano, potrebbe essere intesa relativamente alla mèta ultima della vita: solo “in paradiso” avremo riposo! Se poi a essa accostiamo un altro passaggio, le cose si complicano ulteriormente: «se l’animo non desiste dal preoccuparsi delle cose temporali, non si avvicina a Dio. Dice il Signore: “Custodite le vostre anime, e non vogliate portare pesi il giorno di sabato, e non introduceteli per le porte di Gerusalemme” (Ger 17,21). Sabato s’interpreta “riposo”; Gerusalemme è l’anima e le porte sono i cinque sensi del corpo. Quindi portano pesi nel giorno di sabato e li introducono per le porte di Gerusalemme coloro che, implicati negli affanni delle cose temporali, attraverso le porte dei cinque sensi introducono nell’anima il peso dei peccati, il bagaglio delle preoccupazioni di questo mondo, e quindi non custodiscono l’anima dal peccato».

Sembrerebbe che per avvicinarci a Dio e trovare requie si debba diventare insensibili, chiudendo le porte dei sensi. Ma tutto questo ci è impossibile! Occorre che comprendiamo bene cosa Antonio intenda. Innanzitutto ci sta suggerendo che c’è riposo e riposo, e quello che sa addirittura di eternità, tanto da poterla in qualche modo “anticipare”, non è dato da cose o condizioni, ma dalla relazione con Dio. La pace a cui il cuore profondamente anela è intessuta dalla possibilità di vivere in accordo amichevole con il Signore, di riconoscerci amati e stimati da Lui, che per primo cerca l’intesa, l’armonia con noi e per noi.

E quali “forze” possiamo mettere in campo per pervenire a tale mèta? Il secondo passaggio dei Sermoni sembra suggerirci di praticare una virtù che potremmo descrivere come un “(r)allentare”. Sì, innanzitutto un “allentare” quella presa sulle occupazioni da compiere, che le trasforma in pre-occupazioni, in affanno: il peso delle cose - sembra dirci Antonio - non è nelle cose stesse, ma nell’ingresso incondizionato di ciò che esse comportano, che invade senza il “filtro” di una soglia, e sovraespone, sovraccarica l’interiorità.

Mollare la presa comporta lasciar andare, non consentire in noi l’ingresso dell’“indotto” delle responsabilità che abbiamo, di ciò che la vita ci chiede… senza però domandare di caricarci sempre di ogni bagaglio! Se a esempio ci è chiesto di occuparci di qualcuno, il preoccuparci di cosa altri pensino di come lo facciamo è un inutile fardello che rischia di invadere e assorbire inopportunamente le nostre risorse interiori. Sgravarci di tale peso paradossalmente non accelera il passo, ma consente di “rallentare” quel perpetuo movimento che ci mantiene estranei al “luogo” della nostra pace.

Lasciare che le cose siano e cercare in esse innanzitutto di viverle come occasione di conoscenza dell’amore che il Signore ha per noi, senza sovraesporci a ciò che di esse non ci è richiesto, dispone a un autentico e “meritato” ristoro del cuore!