Anno 131 - Settembre 2019Scopri di più
Un passo dietro l’altro
a cura della Redazione
Non sbaglio di molto se dico che sono un migliaio i ragazzi che ho portato a camminare in montagna. A far campi scuola per 30 anni vien facile fare “il grosso” con espressioni del genere. Comunque è vero: esperienze e storie da raccontare ne avrei veramente tante. Portarvi su per sentieri in salita, farvi sopportare il caldo o la pioggia battente, motivarvi ad andare avanti sino alla fine posso dire che è un’arte e voi ragazzi potete ben riconoscere che non rendete di certo la vita facile a chi ci prova.
«Quanto manca?» è l’odioso tormentone che parte dopo neanche mezz’ora e che smette solo quando si intravvede casa. Una delle cose di cui mi sono sempre vantato è di aver sempre fatto arrivare tutti alla mèta, a parte alcune inevitabili eccezioni. Per questo avevo una tecnica collaudata. Durante la prima parte del percorso, quella tranquilla di avvicinamento alla salita vera e propria, ognuno procedeva liberamente: un minimo di “scopa” per gli ultimi e l’obbligo per chi scappava avanti di non perdere mai contatto con chi gli stava dietro.
Quando il sentiero si stringeva e la salita iniziava a picchiare, stabilivo una regola ferrea: io in testa, i più fiacchi dietro di me e guai a chi mi superava. Così facendo riuscivo a controllare con le orecchie il fiatone di quelli dietro, a regolare il passo affinché non mi crollassero e l’andatura complessiva del gruppo fosse lineare. I più forti se ne stavano dietro a cantare, chiacchierare... di certo a loro il fiato non mancava.
Giunti in vista della mèta davo il rompete le righe e chi si voleva sfidare a chi arriva primo poteva ben farlo. Quelli con il fiatone vedevano il termine delle loro pene e questo bastava loro per l’ultimo sforzo. Quando arrivai vicino ai 50 anni e guardando dietro vedevo tutta la fila che mi seguiva compatta, il pensiero che facevo era: «Sono io bravo a tenerli uniti o, in realtà, io sono il più lento che sta facendo tappo?».
La risposta non ammetteva repliche: «Se anche sono il più lento, questo è il mio passo... ed è quello che comanda». Ora ho quasi la certezza di essere stato il più lento della comitiva, anche perché all’inizio faccio un sacco di fatica: sembra che cuore e polmoni abbiano voglia di tutto fuorché di farmi camminare. Per cui ho imparato a iniziare molto calmo e a mantenere un passo che so di saper tenere anche quando la salita si fa più dura o la stanchezza inizia ad accumularsi. In questo modo non mi fermo mai, arrivo sempre alla mèta e difficilmente ci arrivo distrutto.
Tutto ciò per poter dire che ognuno ha il suo passo e che per quanto lento non se ne deve vergognare. Anzi, lo deve amare, perché è quella lentezza che gli permette di arrivare dappertutto. È il passo del camminare, ma anche dell’apprendere a scuola o dell’abilità nel far le cose. Chi ne ha di più può arrivare più in fretta e forse, nell’insieme del tempo che la vita gli offre, potrà arrivare più distante. Non è detto che distante sia meglio. È la cadenza lenta e solenne dei passi che si susseguono uno dopo l’altro, scalando gradini e aggirando ostacoli, a rendere pregiato il nostro camminare.
Questo va tenuto a mente quando si è in compagnia: se la lentezza aiuta i deboli ad andare avanti, essa offre ai più forti l’opportunità di non divorare la vita, di cogliere segreti che nei giorni del “tutto storto” verranno buoni. Non penso che Gesù abbia mai dovuto mettersi in testa alla fila della carovana di apostoli e discepoli che con lui si spostavano da un villaggio all’altro. Ma più di qualche volta ha frenato gli animi di chi correva avanti a credere e mal sopportava chi aveva ancora dubbi. Voi ragazzi li conoscete bene i dubbi e ci fate i conti tutti i giorni. Far seguire un passo all’altro è il miglior modo per farseli amici.