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Una grande fame d’amore

mons. Giampaolo Dianin, vescovo

«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Sulle labbra del Creatore queste parole assumono un valore universale. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, porta dentro di sé un bisogno di relazioni vere e sincere come l’amicizia e profonde e intime come l’amore.

Gesù ci fa fare un passo ulteriore quando nella parabola del buon Samaritano ci ricorda che non dobbiamo essere passivi nelle relazioni, ma che sta a noi “farci prossimo” di altre persone e diventare cercatori e costruttori di relazioni. Il Nuovo Testamento è una miniera di indicazioni per costruire relazioni buone e sane; basterebbe ripercorrere il famoso inno alla carità in cui san Paolo dice che l’amore è magnanimo, non è invidioso, non si vanta, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non tiene conto del male ricevuto (1Cor 13,4-7).

Il bisogno di relazioni fa i conti con le nostre maturità e immaturità e può trasformarsi in sopraffazione, sottomissione e violenza verso l’altro fino al punto di volerlo eliminare. Il dramma dei femminicidi, di cui abbiamo scritto in questi mesi, si colloca proprio in questa polarità tra quel bisogno di relazioni e di amore che fa parte della nostra natura umana e il modo di cercarle, viverle e costruirle che dipende dalla nostra maturità.

La questione più problematica è il confronto tra l’universo maschile e quello femminile, una differenza che è un fatto evidente al di là di tutte le questioni sacrosante legate alla parità e al superamento di sorpassati stereotipi di genere. La sopraffazione e la violenza non sono solo dei muscoli, ma anche quelli più subdoli della gestione e manipolazione dell’altro.

Si parla tanto in questo contesto di educazione, si pensa a leggi per introdurre nella scuola l’educazione civica e quella sessuale, tutte cose importanti. Un aspetto mi sembra oggi doveroso considerare ed è l’educazione emotiva. In una società che mette al centro l’affettività, i sentimenti, le emozioni, la spontaneità, la ricerca di essere se stessi, imparare a riconoscere e gestire il proprio mondo emotivo è basilare. Qualcuno, commentando un famoso slogan, ha scritto queste parole ironicamente vere: «Va’ dove ti porta il cuore e poi chiama il cervello che vada a riprenderlo».

Alberto Pellai invita gli educatori a lavorare su una «consapevolezza emotiva che permetta ai maschi di allontanarsi dal mito del “vero uomo” per permettere loro di addentrarsi alla scoperta “dell’uomo vero”». Si tratta di costruire relazioni fatte di vicinanza e sana distanza, di intimità attenta alla tossica logica del possesso. Un analogo discorso vale per le donne chiamate a scoprire “la donna vera” perché tutti abbiamo bisogno di educazione emotiva.

L’educazione emotiva non la possiamo far maturare da soli, ma è necessario un gioco di squadra che inizia dentro la famiglia, quando fratelli e sorelle imparano a stare insieme, a gestire i conflitti accompagnati dai sì e dai no di due saggi genitori armati di pazienza nell’aiutare i figli a non vivere di “istinti”, ma di scelte giuste. Continua nei gruppi, si mette alla prova nei primi amori dove un adolescente è totalmente in balia di quello che prova e fatica a gestire. Matura quando una relazione finisce ed è essenziale stare accanto alla sofferenza dei nostri ragazzi.

L’educazione delle nostre emozioni ci può accompagnare nel gestire quella “fame d’amore” che è parte della nostra natura umana e che dovrebbe evolversi in un sano, ma non per questo più facile da vivere, “desiderio d’amore”.