Anno 135 - Luglio-Agosto 2023Scopri di più
Vivere è altro che vivacchiare
suor Marzia Ceschia
Ho incontrato qualche tempo fa un gruppo di giovani studenti universitari: ragazzi e ragazze dagli sguardi belli, luminosi, attenti, giovani ricchi di interrogativi e capaci di trovarsi spazi per pensare e confrontarsi tra loro. Ce ne sono, ma non fanno audience... Per fortuna, mi dico: hanno così più libertà di parlare di altro e in altro modo, rispetto ai cliché imposti dalla pratica dell’esibizionismo e della superficialità di chi vuole a tutti i costi apparire. Dialogando con loro mi è capitato di citare alcune personalità, che ritengo tutt’ora esemplari per chi cerchi attestazioni di una fede intelligente, concreta, capace di coniugare il credere con la cultura, con il pensiero e l’impegno: La Pira, Enrico Medi, Lazzati… Chi sono costoro?
Per la maggioranza quasi sconosciuti. Noi più “vecchi” dobbiamo fare un esame di coscienza, credo, anche riguardo a ciò che non comunichiamo, al testimone che non sappiamo passare... Ai giovani diamo figure ispiratrici? Li lasciamo in balia degli influencers senza il coraggio di indicare alternative credibili? E forse è perché ci sentiamo poco credibili proprio noi? Davanti a quei volti giovani e assetati mi tormentavano dentro queste domande. Ed è per questo che voglio proporre di fare memoria di un giovane che anche ai nostri tempi può essere ispiratore: il beato Pier Giorgio Frassati. Uno che sosteneva tra i suoi coetanei che «A noi non è permesso di vivacchiare; noi dobbiamo vivere»!
Pier Giorgio, torinese, nasce il 6 aprile 1901: la sua è una famiglia dell’alta borghesia, una delle più in vista della città. Il padre è giornalista, la madre una pittrice affermata. In lui emerge un tratto tipico della giovinezza: il desiderio di appartenenza, di condivisione degli ideali. Frassati partecipa infatti a diverse associazioni, tra le quali rivestono particolare importanza nella sua esperienza la FUCI, la Gioventù Cattolica, le Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli. Di famiglia benestante non è indifferente alle precarietà e indigenze degli operai in una Torino che conosce un grande sviluppo imprenditoriale. Dedica del tempo in attività assistenziali a servizio dei diseredati, dei poveri entrando concretamente e attivamente nelle situazioni di marginalità che una città, allora come oggi, svela e nasconde.
È gioviale e creativo: dà vita con i suoi amici più intimi a una società denominata “Tipi loschi” animata dal desiderio di aiutarsi nella vita interiore e di aiutare gli ultimi. È appassionato di alpinismo, sperimentando tutta la potente dimensione spirituale del contatto con le vette, con la fatica delle scalate, con la bellezza dei monti. Assiduo nella preghiera, con una solida fede nell’Eucaristia e nella Madre di Dio, è sorretto da tensioni grandi e profonde anche nello studio. Si iscrive, dopo il liceo, al corso di ingegneria industriale mineraria al Politecnico di Torino con l’intento di poter «servire Cristo tra i minatori».
Nel 1920 si iscrive al Partito popolare italiano appena fondato da don Sturzo e, nel medesimo anno, ha l’opportunità di seguire il padre, divenuto ambasciatore, a Berlino, dove frequenta circoli cui partecipano studenti e operai. È un’esperienza che lo segna profondamente, tanto che nel 1921, al decimo congresso nazionale della FUCI, tenutosi a Ravenna in contemporanea al convegno internazionale degli studenti cattolici dell’organizzazione “Pax romana” fondata a Friburgo nello stesso anno, propone – senza successo – che il movimento cattolico degli studenti confluisca nella Gioventù cattolica italiana.
Trae motivazioni dagli scritti di Caterina da Siena, dai discorsi del Savonarola, tanto da decidere di entrare nel Terz’ordine domenicano, dove assume il nome di fra’ Girolamo. Due mesi prima della laurea è colpito da una poliomielite fulminante che lo porta alla morte il 4 luglio 1925. È beatificato da Giovanni Paolo II il 20 maggio 1990. Risuonano di attualità queste sue parole, in una lettera del gennaio del 1925: «... Bello è vivere in quanto al di là v’è la nostra vera vita altrimenti chi potrebbe portare il peso di questa vita se non vi fosse un premio alle sofferenze, un gaudio eterno, come si potrebbe spiegare la rassegnazione ammirabile di tante povere creature che lottano con la vita e spesse volte muoiono sulla breccia se non fosse la certezza della Giustizia di Dio. Nel mondo che si è allontanato da Dio manca la Pace, ma manca anche la Carità ossia l’Amore vero e perfetto. Forse se san Paolo fosse da tutti noi più ascoltato le miserie umane sarebbero forse un po’ diminuite».