Si parla ormai sempre più spesso di classi “ingestibili”, non è raro imbattersi in video diffusi nel web nei quali gli stessi studenti riprendono con lo smartphone situazioni scolastiche a dir poco imbarazzanti, per non parlare dei recenti fatti di cronaca come quello della professoressa “impallinata” con una pistola ad aria compressa dai suoi allievi nel corso della lezione.
Insomma, le aule sembrano essere diventate un banco di prova dove si travalica il confine non solo del rispetto nei confronti dell’istituzione e dei docenti, ma dove emerge con chiarezza l’inadeguatezza nei confronti delle regole e della convivenza civile. A mostrare la sua fragilità e le sue contraddizioni è l’intero sistema educativo, di cui gli studenti rappresentano l’ultimo tratto.
Insomma il patto educativo, che dovrebbe fondare e garantire la relazione tra scuola, studente e famiglia è spesso disatteso o frainteso, anche quando non si arriva a certi gesti estremi. Perché?
La verità è che la scuola è percepita sempre meno come luogo di “opportunità”, in essa quindi capita che gli alunni tendano ad affermare in maniera distorta la propria personalità e a “sabotare” i percorsi proposti.
La “svalutazione” dell’istituzione scolastica è sotto gli occhi di tutti. Viene vista (o etichettata?) come luogo “anacronistico”. In realtà, la scuola paga lo scotto soprattutto dell’incapacità sociale di gestire il fallimento. Rappresenta uno dei pochi scenari, assieme ai campi di competizione sportiva, dove ancora si sperimenta in maniera cocente la caduta. Nelle aule non ci sono “filtri” edulcoranti, non c’è una via di fuga virtuale, non ci sono narrazioni “alternative”: la fotografia che in esse si scatta, rispetto ai limiti e alle criticità di chi custodisce al suo interno, è nitida e impietosa.
La domanda è: i nostri giovani studenti sono pronti a confrontarsi con sé stessi?
In un processo educativo efficace la “caduta” non dovrebbe generare rabbia, ma trasformarsi in energia che porta al cambiamento e alla maturazione dell’individuo. Questo meccanismo richiede consapevolezza interiore e mediazione. Per mediare occorre una “rete”, non virtuale ma concreta, un “team” di educatori competenti (genitori, docenti, coach e altri) e di “pari”, nei confronti dei quali instaurare relazioni non competitive, ma di confronto costruttivo e rispecchiamento.
La crescita dovrebbe essere un processo condiviso, all’interno della scuola le classi dovrebbero rappresentare una sorta di “organismo” che include e valorizza la diversità, lo svantaggio, l’alterità. Tutto ciò avviene realmente?
Il contesto in cui viviamo non insegna a trasformare i propri errori o le proprie difficoltà in nuove possibilità, ma sceglie la via breve della trasgressione a tutti i costi, invita a “scaricare” le proprie responsabilità e a nascondersi dietro all’arroganza.
Tra le tecniche di gestione delle classi si suggeriscono metodi che fanno leva sull’alfabetizzazione delle emozioni, sulle strategie di contenimento delle dinamiche negative e non costruttive. Pare che il “vulnus” risieda soprattutto in una certa incapacità di riconoscere e far fronte al proprio stato emotivo, sollecitato nei nostri giovani su più fronti, reali e virtuali. Gli adolescenti sono in balìa delle proprie fragilità e si muovono in maniera destrutturata, senza efficaci punti di riferimenti. La famiglia fatica a essere presente e a trovare i giusti canali comunicativi, la scuola arranca e i luoghi di aggregazione mancano.
Queste grandi negligenze portano alla contrapposizione e conseguentemente allo scontro. Il senso di colpa e l’incapacità di fare autocritica rende sempre più spesso i genitori paladini dei propri figli, pronti a “coprire” più che a educare. Di contro, la scuola investita di responsabilità educative “inedite” fatica a sostenerne il peso, soprattutto perché esposta a critiche e attacchi continui, e così risponde cristallizzandosi in un ruolo difensivo e giudicante.
I fatti sollecitano però all’azione e alla revisione dei modelli e dei comportamenti prima che sia troppo tardi.
Silvia Rossetti
Agensir