Tra le figure più comunemente effigiate nelle chiese, tre reggono tra le braccia il Santo Bambino: Maria, sua madre; Giuseppe, il suo padre terreno; e io, Antonio. Un onore che mi commuove e mi porta a raccontare, nell’approssimarsi del Natale, la ragione e il significato di questa immagine che mi associa così strettamente al mistero dell’Incarnazione.
Un mistero, tengo a dire, che ebbe grande parte anche nella spiritualità di padre Francesco, “l’inventore” del presepio. Il Bambino che contemplo in estasi in tanti quadri e statue rimanda a un fatto accadutomi alla fine della vita: eravamo in estate, la mia calda, ultima estate; sentivo ormai le forze sfuggirmi e una grande spossatezza invadermi, che non potevo più attribuire solo all’improba fatica, fisica e psicologica, del lungo Quaresimale padovano.
Mi ero rifugiato a Camposampiero, dove cercavo respiro nella comunità ospitata dal conte Tiso: di giorno trovavo refrigerio su un noce; di notte tornavo in cella per un riposo fatto soprattutto di contemplazione del mistero divino, a cui mi stavo affacciando. Nelle mie prediche quaresimali avevo marcato il valore della nostra salvezza ottenuta da Cristo con la sua Passione, sul Calvario e sulla croce; ora il pensiero andava all’origine del Mistero, a quell’Incarnazione che aveva visto l’immensamente grande trasfondersi nell’infinitamente piccolo.
Come avevo scritto nel sermone natalizio, ero profondamente colpito dall’umiltà e dalla povertà di quel Bambino “avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia”. “Troverete un bambino”, annunciò l’angelo ai pastori, e voleva dire: «Troverete la sapienza che balbetta, la potenza resa debole, la maestà abbassata, l’immenso fatto bambino, il ricco fattosi poverello, il re degli angeli che giace in una stalla, il cibo degli angeli divenuto quasi fieno per gli animali, colui che da nulla può essere contenuto adagiato in una stretta mangiatoia».
Questo è il segno datoci perché non andiamo in rovina, come i pagani e gli abitanti di Gerico: per il Salvatore nato sia gloria a Dio Padre nei cieli altissimi e pace in terra agli uomini che egli ama. Ero immerso in tale contemplazione quando la porta della cella si aprì e comparve il mio ospite, il conte Tiso, allarmato dal bagliore che emanava dal Bambino come un incendio.
Mi riscossi, svegliandomi dal sogno di beatitudine, e mi sentii imbarazzato di fronte a quello svelamento, che poteva essere interpretato come un mio prodigio, quando in realtà la mia povera carne dolente nulla aveva – nulla ha – di miracoloso se non la grazia che il Signore riversa, come buon vino in un vecchio orcio ammuffito.
Gli chiesi di non farne parola ad alcuno, e il segreto fu conservato, almeno fino alla mia scomparsa ormai prossima. La morte bussava con insistenza e proprio per questo, messa da parte la dottrina, la sapienza che avevo cercato di coniugare con l’umiltà francescana, pensavo alle tante analogie che accomunano l’inizio e la fine del Salvatore: una su tutte, le fasce che lo avvolgono alla nascita e nel sepolcro.
Ecco, questa era la chiave dell’esistenza: «Beato colui che finirà la sua vita avvolto nelle fasce dell’innocenza battesimale». Lasciamoci alle spalle le fatiche dello studio, gli orpelli dell’erudizione, le presunzioni di aver imparato e forse capito tante cose.
Lasciamoci dietro i pesi delle colpe commesse: Cristo, pur offeso dal peccato e dalle ingiurie, come un bambino è pronto a non ricordare più nulla, a perdonare tutto, a correre ad abbracciarti e baciarti se gli offri il fiore della contrizione bagnato dalle lacrime che sono “il sangue dell’anima”.