A distanza di 250 anni si fa memoria della costruzione di un grande organo per il Santuario antoniano, opera del conte padovano Marco Lion.
di Alberto Sabatini (Organista titolare della basilica del santo)
Il grave incendio che divampò nella Basilica del Santo la notte del 29 marzo 1749, oltre a distruggere il coro ligneo (costruito dai fratelli Canozi da Lendinara) e quattro delle otto cupole, danneggiò irreparabilmente i pregiati organi collocati sui pilastroni dell’abside che erano stati costruiti, tra il 1746 ed il 1749, dal famoso organaro veneto-dalmata don Pietro Nacchini.
Per ripristinare la funzionalità dello strumento più grande e sonoro della Basilica, il 29 luglio 1767 la Presidenza della Veneranda Arca di Sant’Antonio affidò ad un organaro di Padova, il conte Marco Lion (1735-1795), la costruzione di un nuovo organo a due tastiere che, collocato sul pilastrone a destra dell’imboccatura del coro, avrebbe preso il posto di quello del Nacchini distrutto dal fuoco; la spesa sarebbe ammontata a 1800 ducati.
Il conte Marco Lion, che abitava in Città nella antica “contrada del Pozzetto” (corrispondente all’attuale via Santa Lucia), rappresenta per la storia dell’organaria padovana una figura eccentrica, colta, raffinata e singolare. Dedito all’esercizio dell’arte più per passione e diletto che per professione e profitto di bottega, questo nobile padovano, anche se non è da includere nella radiosa costellazione dei grandi organari italiani, è da ricordare proprio per aver costruito, in pieno Neoclassicismo, un ragguardevole strumento musicale per la Basilica di Sant’Antonio.
Dopo più di un anno di intenso lavoro, il Lion consegnò la sua opera alla Basilica del Santo: l’antivigilia di Natale del 1768 «fu provato l’organo» – scrive padre Francescantonio Pigna nelle sue Memorie – «e nella sera della vigilia fu suonato al Matutino da un organista fatto venire da Venezia discepolo del Buranello». Lo strumento, che possedeva un doppio prospetto disposto ad angolo di 90°, due tastiere, una pedaliera, 54 registri e circa tremila canne sonore, fu subito apprezzato non solo dal clero padovano, ma anche dalla cittadinanza e dai cronisti dell’epoca. Il 15 luglio 1769 i Massari dell’Arca davano il loro definitivo e completo riconoscimento positivo al lavoro del conte Lion asserendo che, a seguito delle numerose prove effettuate, lo strumento era pienamente soddisfacente per la parte meccanica e molto lodevole per la parte fonica: quest’ultima, dolce e ben proporzionata, presentava voci e registri originalissimi come, ad esempio, Flauto traverso, Flauti dolci, Fagotto e Voce Umana.
Tale organo fu però oggetto di critiche da parte dell’organaro veneziano Gaetano Callido quando, nel 1791, venne incaricato di restaurarlo: con una sua lettera, del 31 agosto, dichiarava di «non esser possibile per parte mia poterlo ridurre in un perfetto ristauro, se non che farlo di nuovo». Il conte Lion, offeso da quel giudizio, sollecitò il Podestà della Città affinché deliberasse di far esaminare da un altro organaro la sua opera; fu scelto il veneziano Francesco Dacci jr., il quale, il 7 ottobre seguente, affermava che «l’organo era buono ed armonioso né altri difetti aveva fuorché quelli che nascono negli organi dal non suonarli» e che «tutte le canne tanto di metallo, come di legno, sono di buona proporzione, sussistenti e ben travagliate; li mantici parimenti sono ben fatti [...]; le tastadure parimenti sono diligentemente lavorate; le cadenaciature e registrature sono ben consistenti e lavorate con esatezza». Il Lion stesso, poi, nella primavera del 1792 faceva recapitare ai massari dell’Arca una sorta di memoriale sull’opportunità di conservare l’organo uscito dalle proprie mani corredandolo di un elenco delle spese necessarie per il restauro; nella missiva, il Lion sottolineava nuovamente la bontà del suo strumento evidenziando quanto la perizia del Dacci «valga a smentire le dicerie disseminate da tal’uno, per arrivare alle proprie mire».
L’organo del conte Lion fu sottoposto nel corso dei decenni successivi a varie opere di manutenzione da parte degli organari padovani Angelo Agostini e Annibale Pugina; rimase sul pilastrone destro del coro sino alla fine dell’Ottocento quando, per far posto all’attuale monumentale organo plurifonico “Vegezzi Bossi/Mascioni”, venne in parte ceduto al Duomo di Piove di Sacco e alla Parrocchiale di Carrara Santo Stefano.
All’attività artistica del Lion sono riconducibili anche altri due organi: quello realizzato per una villa della stessa famiglia Lion ad Albignasego nel 1760 (poi trasferito alla fine del 1794 nell’oratorio di S. Michele al castello del Catajo a Battaglia Terme, dove tutt’ora si trova), e quello a due tastiere, dotato di numerosissimi e particolari registri, fabbricato nel 1775 per una sala dell’Accademia del marchese Giovanni Antonio Dondi Orologio in Padova.