Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed, Uhsam Helmi, Magdi Obrahim, Magdi Ibrahim Abedal Sharif: “sono questi i nomi dei quattro ufficiali dei servizi intelligence del Cairo imputati per la morte di Giulio Regeni e chiediamo che siano scanditi, che cada l’ipocrisia sul fatto che queste persone non siano informate del processo”.
L’appello è di Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana in vista del 31 maggio, data nella quale il Giudice dell’Udienza Preliminare deciderà se accogliere la richiesta della Procura di Roma per un intervento della Consulta e trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale o decidere per il non luogo a procedere oppure mandare gli imputati a processo per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni morto a Il Cairo il 3 febbraio 2016.
Sono trascorsi sette anni e i manifesti gialli con la scritta “Verità per Giulio Regeni” non si sono sbiaditi come forse qualcuno si augurava pensando che la memoria lentamente si spegnesse, come è accaduto per altre tragedie analoghe, lasciando posto all’oblio cioè alla rassegnazione. Così non è stato e così non è grazie soprattutto alla famiglia del giovane ricercatore che in tutto questo tempo non ha cessato di bussare alle porte delle istituzioni come a quelle della società e della politica per chiedere di fare proprio l’impegno per giungere alla verità e alla giustizia.
Un appello a non svendere la dignità per interessi politici ed economici o per indifferenza. È significativo che questa richiesta di verità e di giustizia abbia tra i primi sostenitori quei giornalisti impegnati, in fedeltà al codice etico professionale, a far luce su quanto accaduto. Ed è altrettanto significativo che i genitori di Giulio Regeni scrivano nella lettera pubblicata nei giorni scorsi: “non è accettabile che chi tortura e uccide pagato da un regime che il nostro Paese ritiene ‘amico’ possa abusare del nostro sistema di diritto e godere dell’impunità”.
“Amicus Plato sed magis amica veritas”, Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità, recita una massima antica e sempre attuale che oggi risuona anche nel ribadire dei genitori di Giulio Regeni che “né rabbia né odio” era nella loro richiesta. La domanda è se accettare che la verità venga sacrificata all’amicizia oppure se ritenere vera un’amicizia solo quando gli amici sono insieme dalla parte della verità.
Credere nell’indissolubilità del binomio verità-amicizia potrebbe sembrare dopo sette anni tenere viva un’utopia. I genitori di Giulio Regeni concludono così la lettera dei giorni scorsi: “E’ una battaglia di dignità che riguarda tutti noi”. La domanda di dignità, di verità e di giustizia non è mai stata un’utopia. Non può essere un’utopia neppure a distanza di sette anni.
Paolo Bustaffa
Agensir