Sono sotto gli occhi di tutti le immagini dei bambini estratti dalle macerie anche a distanza di molti giorni dal terremoto. Immobili, con gli occhi sbarrati, assenti. E poi ci sono quelli che hanno visto crollare la propria casa e magari hanno perduto genitori e fratelli. Secondo l’Unicef, i minori vittime “collaterali” del terremoto sono circa 7 milioni. Quali segni lascia nella loro mente un evento così traumatico che per i piccoli siriani si aggiunge alla devastazione della guerra? Come aiutarli a riprendersi? Lo abbiamo chiesto alle psicologhe Mara Bruno e Michela De Luca, responsabili dell’Area età evolutiva dell’ Itci (Istituto di terapia cognitivo interpersonale) di Roma.
“Il terremoto è qualcosa che già di per sé colpisce pesantemente la psiche dell’essere umano adulto; per i bambini diventa un evento devastante perché i piccoli sperimentano in un solo istante paura, lutto, perdita della casa”, esordisce Mara Bruno. “Il trauma da terremoto – a livello psicologico lo definiamo proprio così – ha un impatto devastante sull’identità dei bambini il cui benessere è assicurato da due certezze fondamentali: la prevedibilità e la protezione. Con il terremoto si disintegrano invece la rassicurante routine quotidiana e il senso di sicurezza. Ne consegue che questi bambini sviluppano vere proprie credenze distorte e negative sul mondo; iniziano a leggerlo in maniera esclusivamente minacciosa e in modalità depressiva. E’ davvero un Trauma con la T maiuscola che si accompagna per i più piccoli al terrore per la propria incolumità e fortissimo senso di impotenza”.
“Un trauma amplificato e ancora più devastante per i bambini siriani che vengono da quasi 12 anni di guerra, bombardamenti e continui sfollamenti”, osserva Michela De Luca, “Bombardamenti e terremoti distruggono tutto, materialmente e psicologicamente; causano paura, panico, disorientamento, rabbia con forme di disregolazione emotiva e comportamenti aggressivi anche di tipo antisociale. Cancellato il passato e il presente, è difficile pensare ad un futuro. Ferite dell’anima con conseguenze sulla psiche, sull’organismo e sul sistema immunitario, i traumi rendono il corpo sotto stress più vulnerabile. I più piccoli presentano disturbi fisici e comportamentali, soprattutto problemi di sonno, inappetenza e irrequietezza; i più grandicelli manifestano invece disagi a livello emotivo e relazionale: paura, angoscia, rabbia, sensazione di vivere in un mondo pieno di insidie. E sappiamo quanto le immagini della vita e del mondo costruite dai ragazzi ne possano condizionare il futuro, il modo di affrontare la vita e le relazioni con gli altri”.
“In questi ultimi anni riscontriamo la cosiddetta sindrome da rassegnazione – riprende Bruno con riferimento a traumi complessi come quelli dei piccoli siriani -: in risposta ad una sofferenza così acuta molti di questi bimbi entrano in una sorta di torpore profondo al punto da smettere di alimentarsi e di bere, ammutoliscono e si ritirano dal mondo; una sorta di meccanismo difensivo molto grave, un voler morire dentro che deve essere curato con l’ospedalizzazione. Un altro fenomeno che emerge in queste situazioni è la sindrome del sopravvissuto: il piccolo scampato alla morte dei fratelli o dei genitori tende a sentirsi in colpa e a percepirsi non più meritevole di essere felice”.
“A tutto questo – prosegue – si aggiunge la traumatizzazione secondaria costituita dal subire l’impatto di un genitore a sua volta traumatizzato, esperienza assolutamente disorganizzante a livello di sviluppo evolutivo”. Sì perché questi genitori, spiega De Luca, finiscono per “acuire involontariamente il trauma del proprio figlio e, non essendo più in grado di essere un punto di riferimento, ne aumentano disorientamento e instabilità. Anche loro vanno aiutati e sostenuti”. Le immagini dei piccoli che sembrano avere perduto i propri cari hanno provocato in tutto il mondo un’ondata di offerte per adottarli, ma le organizzazioni competenti hanno spiegato che in emergenza le adozioni vanno bloccate. “Non possono essere una soluzione d’emergenza perché le adozioni prevedono un percorso lungo e complesso senza il quale si rischia di aggravare il trauma del bambino- osserva De Luca -. In Italia vediamo minori adottati in famiglie disfunzionali per i quali trauma si assomma a trauma.
Ciò che occorre in questo momento è accudire il prima possibile questi bambini e tentare di ricongiungerli con le loro famiglie e, in assenza dei genitori, con parenti o amici affinché possano rimanere, per quanto possibile, nel loro contesto affettivo-relazionale”. Ma è importante anche ascoltarli, rassicurarli, tentare di confortarli e “creare per quanto possibile delle piccole routine giornaliere che diventino uno scudo protettivo di pseudo normalità.
Occorre restituire, pur nella complessità della situazione, speranza a tutti: bambini e adulti”. Nelle prime fasi di soccorso e aiuto, prosegue, “è utile creare momenti di condivisione della sofferenza e della paura tra bambini e anche tra adulti nell’ottica di sviluppare empatia – non soffro solo io, anche l’altro soffre come me – e quindi solidarietà. Empatia e solidarietà si contrappongono al senso di ingiustizia subita: sono l’antidoto più efficace contro rabbia, impotenza e solitudine.
Restituire speranza e promuovere solidarietà dovrebbero essere i capisaldi degli interventi di primo soccorso e sostegno psicologico. Il recupero è più semplice e veloce se il bimbo è più piccolo? “Sì – risponde Bruno -, perché i più piccoli hanno una diversa modalità di mentalizzare, percepire e rielaborare le informazioni. Il cervello di un bambino di un anno è in grado di sanare il trauma in maniera più rapida ed essere pronto a ricominciare. I più grandicelli, invece, perdendo la propria quotidianità hanno la sensazione di aver perduto la vita. Vivono una profonda cesura fra il prima e il dopo. È un ricominciare da capo dopo un taglio netto”. In ogni caso, conclude De Luca, “è fondamentale la tempestività dell’intervento: prima si interviene, meno si cristallizza il trauma”.
Giovanna Pasqualin Traversa
Agensir - Foto: Ansa SIR